A tavola mi vengono poste spesso alcune domande sui miei trascorsi corsaioli.
Quelle più “gettonate” sono, la gara più dura che abbia mai corso, la caduta più brutta che abbia avuto, e cosa sia cambiato oggi a differenza di ieri nelle gare di Enduro. Sono i piloti di oggi più veloci di quelli di un tempo?
Devo dire che (con una carriera lunga trent’anni) ho un ampio ventaglio di episodi, ma sulla gara più dura faccio sempre una precisazione.
Infatti quando correvo non da professionista con poco allenamento e poca tecnica, nel 1988, mentre ero impegnato nell’Italiano di Motocross, mi inventai di prendere parte alla Valli Bergamasche in sella ad una Yamaha 250, che di Enduro aveva solo la targa e l’accensione per far funzionare i fari. Così mi buttai senza sapere cosa mi aspettasse, pensando che gli anni precedenti nella Regolarità (dove sette anni prima avevo vinto l’Italiano Cadetti) mi avrebbero aiutato ad affrontare la mitica gara Orobica.
Purtroppo il digiuno da mulattiere a discapito di una preparazione alle manche di motocross, non diedero gli esiti che speravo. Mi ritrovai per molte ore di gara sotto la pioggia battente, con Speciali interminabili, tempi stretti per tutta la giornata e un controllo tirato su mulattiere “caine” come quella di Colle Palazzo. Oltre a questo fui “perseguitato” da un paio di forature che mi misero veramente in difficoltà fino ad arrivare a maledirmi da solo per la scelta scellerata.
Maledissi tutto il fuoristrada Bergamasco con particolare dedica a Walter Manera, responsabile del percorso e dei relativi tempi. Terminai comunque le due giornate di gara, sconvolto dalla stanchezza.
Da professionista invece è stata la Gilles Lalay Classic, e delle sue difficoltà vi ho già parlato nel numero 87 di Endurista Magazine.
Noto sempre il grande stupore quando dico di non ritenere la Dakar la gara più dura.
Mi spiego, è chiaro che molte ore in sella per molti giorni sono massacranti (però non me ne vogliano) ma certamente la metà degli amatori che terminano le 14 tappe della Dakar, non sarebbero in grado di terminare due tappe di Mondiale Enduro in un’edizione tosta.
La Dakar entra in scena quando mi chiedono della mia caduta più brutta.
In verità ne ho diverse a curriculum ed è sempre complicato per me scegliere la peggiore. Per cui anche in questo caso è doveroso fare una precisazione.
C’è da dire che una caduta rovinosa alla fine si conclude con uno stato confusionale e si provano emozioni come dolore e rabbia.
Poi si viene portati via con l’elicottero ed è già tutto finito.
Molto più bello raccontare i grandi rischi da cui miracolosamente si esce indenni. I grandi rischi ti lasciano addosso, infatti, la paura e con il cuore in gola ti condizionano le giornate successive. Spesso si rimane così spaventati che poi è fatica riprendere il ritmo della gara.
A tal proposito la mia paura più grande alla Dakar, non derivò da una caduta, ma dal non riuscire a definire quanti furono i metri percorsi sulla sola ruota anteriore con la moto in assetto verticale.
Sapete quanto è rischioso essere disarcionati a quelle velocità in fuoripista tra pietre e massi sparsi ovunque?
Fortunatamente quella volta i Santi fecero sì che la moto tornasse sulla pista in posizione orizzontale.
Fiuuuuuu, che “caga” gente, non vi dico quanti pensieri mi passarono per la testa in quei pochi secondi.
Il forcellone prese una tale legnata che dopo una trentina di chilometri si spezzò. L’attesa di oltre due ore per l’arrivo del camion assistenza per la sostituzione, non mi fece arrabbiare per niente!
Una volta ripartito poi (visto che la causa di quel rischio fu uno scalino in uscita da un Oued, affrontato a velocità eccessiva) quando vedevo della vegetazione rigogliosa (classico contorno dei fiumi secchi) chiudevo il gas e davo anche una “frenatina” per accertarmi di quanto fosse profondo!
Riguardo le gare di ieri e oggi, sappiamo bene che da qualche anno hanno avuto un grande cambiamento.
In primis la durata della gara, limitata ad un massimo di sette ore, l’inserimento della Prova Speciale Estrema e la possibilità di intervento da parte dei meccanici sulla moto (cambiamenti non riportati alla Six Days che mantiene le regole originali del tempo).
Sostanzialmente si sta meno tempo in sella ed i tratti difficili si sono concentrati nell’Estrema, cosa non facile visto che si è sotto la pressione del cronometro. In sintesi gare più brevi ma più concentrate.
Una volta invece non c’era un limite e spesso si sfioravano le nove ore di gara. Qualsiasi intervento sulla moto era esclusivamente a cura del pilota ed i tratti difficili ed estremi dove spesso si spingeva, si trovavano sul percorso.
Il tempo era quello della percorrenza nel C.O. quindi non si doveva sforare il minuto d’arrivo, mentre ora nell’Estrema contano i secondi.
Riguardo i piloti, impossibile fare un confronto. Andando indietro nel tempo, negli anni ’70 ad esempio troviamo che c’era un grande divario tecnico tra le moto dei vari marchi.
Quindi la sola capacità di guida non sempre colmava la differenza tra una moto e l’altra, per non parlare dell’affidabilità del motore che molte volte decretava la differenza sui risultati finali, cosa abbastanza rara in tempi moderni.
Poi negli anni ’80 le moto si sono allineate come prestazioni e affidabilità, specialmente le “moto ufficiali”, grazie anche alle innovative soluzioni tecniche dettate dai marchi Giapponesi come il mono ammortizzatore, i freni a disco, le lamelle, le accensioni elettroniche, il raffreddamento a liquido ecc… Insomma, soluzioni poi che vennero adottate da tutti.
Potremmo dire che dagli anni ’90, con le moto allineate nella tecnica, è iniziata l’epoca dove il pilota fa la differenza, consolidata negli anni a seguire ed in continua evoluzione, fino ad arrivare ai giorni nostri dove i piloti ora (come ieri) vincono sapendo sfruttare al meglio il potenziale dei propri mezzi, utilizzando una guida appropriata.
Quindi per farla corta, direi che se Verona e Gritti scambiassero i periodi del loro stato di grazia, Andrea Verona avrebbe vinto al tempo e Gritti, vincerebbe ora! Nelle vacanze estive passate nel Nord d’Europa, ho fatto alcune deviazioni per visitare i luoghi dove corsi le tappe nella mia prima stagione di mondiale nel 1991, in Svezia a Vimmerby.
Ricordo quando misi le ruote in quegli immensi boschi chiedendomi come si potesse guidare su pietre e radici ricoperte da 15 centimetri di muschio che appianava tutto come fosse neve.
In quella gara come se non bastasse, il meteo ci mise del suo regalandoci tanta pioggia.
Ancora oggi mi chiedo se fu una fortuna o no in quanto è vero che si scivolava, ma la velocità era davvero ridotta e si potevano valutare meglio le asperità del terreno!
Devo dire che è stata una bella emozione tornare in quella cittadina e rivedere quei boschi che inizialmente mi intimorivano ma che poi con l’esperienza divennero uno dei miei terreni preferiti. |
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